COP 17 – Quattro elementi per una riflessione comune.

Quello che chiamiamo clima è per definizione la configurazione di equilibrio di un sistema complesso – dato dalla mutua interazione tra pianeta atmosfera e vita – che si è stabilita sulla Terra in miliardi di anni, un tempo impensabile per qualunque civiltà umana. La nostra stessa esistenza, come quella di qualunque altra specie vivente, non è un caso: siamo “adatti” a questo mondo perché ci siamo evoluti come specie insieme ad esso, e abbiamo avuto il tempo di farlo. Perturbando questo stato di equilibrio il sistema ne troverà un altro, ma non è per nulla detto che noi saremo adatti a questo nuovo mondo e i tempi del cambiamento, che sono quelli della civiltà industriale, non sono certo sufficienti ad una evoluzione delle specie.Per fortuna, di fronte all’evidenza scientifica di segnali ormai inequivocabili (che vanno dal record nelle temperature medie globali degli ultimi dieci anni alla stravolta distribuzione e inusuale intensità delle piogge e di fenomeni violenti come gli uragani), le tesi negazioniste del cambiamento climatico e della sua causa antropogenica sono ormai appannaggio di pochi fedelissimi e, almeno a parole, è ormai chiaro a tutti che bisogna agire subito per contrastare il cambiamento del clima.

Bisogna riuscire a capire quali sono le reali cause di questa situazione e quali le vie d’uscita, assumendo un punto di vista lucido e che certo non parta da dogmi indiscutibili visto che, banalmente, se siamo arrivati a questo punto in qualcosa stiamo sbagliando. 

Conference of Parties

L’elemento che sta perturbando il clima terreste, lo sappiamo tutti, è la concentrazione dei cosiddetti gas serra nell’atmosfera (prevalentemente anidride carbonica ma anche, tra gli altri, metano e protossido di azoto) che, trattenendo la radiazione infrarossa emessa dal pianeta, contribuiscono ad aumentarne la temperatura: siamo ora alla quota complessiva di 430 ppm (il 70 % in più rispetto all’era pre-industriale), e questa quota sta aumentando al momento di 2,5 ppm all’anno [1] . Modelli sull’evoluzione del clima universalmente accettati prevedono che, se la concentrazione di questi gas si stabilizzasse intorno alle 500 ppm, l’innalzamento della temperatura media sarebbe compreso tra i 2° e i 5°, il che corrisponderebbe ad uno stravolgimento degli ecosistemi terrestri per come li conosciamo ora.

Di fronte a questo dato chiunque sarebbe portato a concludere che la prima cosa da fare e in tempi brevi è quella di azzerare le emissioni di gas serra, penalizzando – magari con una pesante tassazione – un tipo di economia inquinante ed energivora a favore di realtà produttive a basso impatto ambientale ed impedire che i paesi del Sud del mondo seguano il nostro stesso percorso verso lo “sviluppo”.

Come al solito però non siamo chiamati in causa, e a decidere quali siano le politiche da portare avanti per uscire dalla crisi ambientale sono quegli stessi emissari della governance globale che hanno steso la ricetta per risolvere la crisi finanziaria: rappresentanti dei governi di tutto il mondo sono riuniti proprio in questi giorni a Durban, in Sudafrica, in quello che sarà il 17° atto della Conference of Parties, percorso intrapreso dall’ONU nel 1995 per combattere il cambiamento del clima.

 Le misure adottate in queste sedi vanno a toccare gli elementi fondanti non solo delle nostre economie ma dell’ambiente in cui viviamo e di cui abbiamo bisogno per la nostra stessa esistenza: resta da vedere se le scelte fatte mirano ad un vero cambio di direzione, che ponga le basi per un modello radicalmente diverso da quello attuale, oppure vogliono solamente mantenere in vita una concezione sistemica fallimentare e distruttiva dell’esistente.

 Aria

Potremmo pensare all’aria e all’atmosfera come all’unica cosa rimasta ormai estranea al concetto di proprietà: in apparenza potrebbe sembrare che l’aria sia di tutti e che nessuno abbia un diritto particolare su di essa. Ma non è così: in assenza di regole tutto va a vantaggio dei (pochi) grandi inquinatori che possono continuare a costruire profitto sulle proprie attività, facendone poi ricadere il costo ambientale sulla collettività. “Inquinare l’atmosfera significa appropriarsi di un bene comune” dice Vandana Shiva [2], perché proprio di questo si tratta.

Ma la situazione è ben peggiore di questa, perché le politiche in materia ambientale dal Protocollo di Kyoto in poi stanno andando nella direzione di creare una sorta di “diritto ad inquinare”, un vero e proprio strumento finanziario che possa essere venduto e comprato dalle aziende: una singola industria potrà decidere se ridurre le proprie emissioni entro un certo valore (assegnatole in base alla sua storia di inquinamento) oppure se acquistare da altri, dove costano meno, delle “emissioni bonus” sotto forma dei cosiddetti Carbon Credits. Questo processo non ha nulla di diverso rispetto ad una vera e propria privatizzazione dell’atmosfera: qui si stanno vendendo quote di atmosfera da inquinare liberamente, legittimando di fatto quello stesso processo criminale che ha potuto agire indisturbato fino ad ora. 

Nelle parole degli ideatori di questo meccanismo, che ha visto la sua prima realizzazione nel Clean Development Mechanism (istituito nell’articolo 12 del protocollo di Kyoto, gestore delle relazioni di compravendita dei Carbon Credits e che coinvolge enti pubblici e privati) , il fine sarebbe quello di ridurre le emissioni complessive del pianeta andando a minimizzare il costo per la messa in pratica delle necessarie innovazioni tecnologiche e contemporaneamente finanziando il processo di “sviluppo sostenibile” nei paesi del Sud del mondo.La vera contraddizione di questo sistema è che i crediti vengono consegnati solo alle realtà più inquinanti delle nostre economie, favorendo quelle che fanno qualcosa di “verde” rispetto alle altre; ma le realtà veramente sostenibili restano escluse dal gioco e tutti i flussi di denaro restano ristretti ai soliti grandi colossi dell’economia globalizzata e alle grandi industrie emergenti dei paesi del Sud (molto spesso associate ai primi). 

Per combattere il cambiamento climatico stiamo paradossalmente finanziando imprese multinazionali come Bunge e Cargill (aziende multinazionali leader nel settore alimentare che si stanno accaparrando grosse quote di crediti), caratterizzate da una produzione ad alta intensità energetica e da una catena di distribuzione che si estende da una parte all’altra del globo, piuttosto che piccole realtà che producono gli stessi beni a livello locale e ad emissioni zero.

Di fronte a chi, nell’emergenza planetaria, difende la propria libertà di costruire profitto sulla distruzione dell’atmosfera, dobbiamo rivendicare il nostro diritto a mantenere l’aria libera e scevra dalle logiche economiche e di business. L’aria non è merce, la vita non è merce: decidere di inquinare l’atmosfera significa decidere di inquinare le nostre vite.

Acqua

Pensando al futuro del pianeta, così come si configura anche nella sua prospettiva più ottimistica (innalzamento della temperatura globale entro 2°), una delle questioni più delicate sarà sicuramente quella dell’acqua: un cambiamento così radicale del clima porterà ad uno sconvolgimento degli equilibri che in questo momento regolano la distribuzione delle piogge, con conseguente inaridimento e desertificazione di diverse aree del pianeta. Se già oggi si avverte in molti paesi il problema della mancanza d’acqua, nei prossimi anni questa situazione è destinata continuamente ad aggravarsi. Spostando la nostra attenzione al di fuori dell’Europa, le guerre per l’acqua sono già cominciate: dal conflitto tra Israele e Cisgiordania per il predominio sul fiume Giordano, scoppiato nel 1948 quando fu lanciato da Israele il National Water Carrier Project, un piano per costruire una grande conduttura idrica per irrigare le coltivazioni, per passare ai conflitti in India sul controllo del fiume Kaveri, fino ad arrivare alle guerre su Tigri ed Eufrate che coinvolgono popolazioni nomadi arabe, private dell’acqua dal grande canale artificiale iracheno Saddam, solo per citarne alcune.

Di fronte a questo dato sarebbe naturale aspettarsi un interesse particolare al bene acqua, creando i presupposti per un sistema di distribuzione che tuteli quanti in futuro dovranno affrontare (o affrontano già oggi) carenze idriche: ma non è questa la direzione che si sta prendendo a livello di governance globale. Il mercato, soprattutto in momenti di crisi come questo, ha bisogno di espandere il suo raggio d’azione e di creare profitto su qualcosa di nuovo: abbiamo avuto esperienza diretta di questo in primavera, con il percorso che ci ha portati ai referendum di Giugno, dove milioni di italiani hanno detto no a questa nuova svendita al privato per andare invece verso un modello di gestione diverso, che parta dalle necessità delle persone che dell’acqua usufruiscono ogni giorno.

In più, l’acqua è sicuramente uno degli elementi base su cui si riflette la crisi climatica. Sentiamo parlare di scioglimento dei ghiacciai, di cambiamenti sulla frequenza e la potenza di piogge e precipitazioni in generale. Ma pochi sanno che l’acqua dei mari viene considerata da alcuni un possibile mezzo per la soluzione al problema del surriscaldamento tramite la cosiddetta geoingegneria. Tra le più assurde soluzioni che vanno dall’immissione nell’atmosfera di diossido di zolfo alla costruzione di migliaia di lenti in grado di riflettere i raggi solari, prende piede quella di inquinare i mari per salvare l’atmosfera. Infatti uno dei progetti, il SOIREE, ha come scopo quello di contaminare gli oceani con particelle di ferro per isolare il carbonio: ciò porterebbe alla produzione di fitoplancton che per mezzo della fotosintesi catturerebbe il carbonio stesso. Nonostante queste soluzioni sembrino immediatamente talmente improponibibili da non renderle nemmeno credibili agli occhi dei più, il dottor Kenneth Coale, scienziato a capo del progetto SOIREE, ha dovuto concludere che la fertilizzazione per mezzo del ferro potrebbe in effetti avere la controindicazione di causare la sterilizzazione di vaste aree del pacifico, [4] solo dopo aver inquinato 1100 km quadrati di oceano.

Questa e altre idee che vengono prese seriamente in considerazione sono figlie della presunzione di poter controllare meccanicamente un sistema complesso come quello del clima, mentre il solo fatto di trovarci in questa situazione di emergenza prova che non siamo assolutamente in grado di farlo.

Il problema del surriscaldamento del clima coinvolge anche l’acqua ed essa, essendo una risorsa fondamentale alla vita, coinvolge noi stessi in prima persona. Se in 27 milioni abbiamo deciso, qui in Italia, che l’acqua ci riguarda e che non possiamo essere spettatori di un sistema che spinge sulle privatizzazioni allo stesso modo dobbiamo denunciare a livello globale tutte le violenze che questo bene sta subendo.

Terra

Terra non è territorio, non è appezzamento, non vuol dire fondo.  Terra è terreno coperto da boschi e foreste, ma è anche deserto, montagna, spiaggia, ghiaccio e roccia. Terra è nella sua fisicità il terreno destinato ad agricoltura, allevamento e pascolo, risorsa fondamentale attraverso la quale accedere a beni primari.

Definita in questo modo essa non può non essere pensata come un bene comune e come tale è necessario ripensarne una gestione in termini di amministrazione dal basso da parte di chi la vive e ne abbisogna.

Parlare di terra oggi, e questo è evidente soprattutto nei paesi del Sud del mondo, vuol dire mettere a confronto due modelli di economia profondamente diversi: se da una parte essa ha rappresentato e rappresenta tuttora l’unico mezzo di sostentamento per moltissime popolazioni, dall’altra parte le corporations hanno cominciato da anni una gara all’esproprio, costringendo all’esilio o addirittura al suicidio milioni di contadini per piantare monocolture sterminate.

Forti dell’ideologia dominante che promuove un modello industriale di agricoltura che rovina il terreno, avvelenandolo con enormi quantità di diserbanti e fertilizzanti chimici, e taccia invece come arretrata la piccola agricoltura tradizionale, questi grandi colossi del sistema alimentare stanno continuamente disgregando il tessuto economico e sociale preesistente, in quella che è una delle più gravi emergenze democratiche del pianeta. “Dall’agricoltura all’industria, dai villaggi alle città. Questa è la civilizzazione”[5], così parla in proposito Buddhadeb Bhattacharya, ex ministro del Bengala Occidentale, in una frase che si commenta da sè.

Quando invece la gestione della terra diventa una gestione locale, a volte familiare, si stabiliscono nel rapporto con essa una confidenza ed un rispetto diversi da quello di chi guarda al terreno solo come ad un mezzo per incrementare il proprio profitto: riconoscere nella terra una risorsa necessaria alla sopravvivenza fa in modo che si instauri un ciclo virtuoso di cura che porta ad una produzione realmente sostenibile.

Rapportarsi alla terra come ad un bene di cui non solo siamo fruitori ma anche tutori e ne rispettiamo i principi di biodiversità. Esistono numerose evidenze scientifiche (come è stato registrato dopo l’uragano Mitch del 1999 da uno studio di Eric Holt Giménez[6]) del fatto che questo tipo di rapporto permette di lasciare il terreno più fertile e meglio conservato rispetto ad altri terreni coltivati in maniera intensiva.

Le lotte che coinvolgono la terra e i suoi espropri non sono lotte limitate alle popolazioni che ogni giorno le combattono ma sono lotte globali, come globali sono le politiche che vanno ad attaccare una gestione democratica del territorio e delle sue risorse. Centrale in questo processo è lo strumento dei REDD++ (istituito fin dal protocollo di Kyoto e potenziato nelle ultime edizioni della Cop), che prevede uno stanziamento di fondi da destinare a quei governi che disincentiveranno la deforestazione. Promuovendo a parole la protezione delle foreste originarie dal degrado e dalla distruzione, di fatto ne rappresenta però un serissimo pericolo: difficile non restare sconcertati di fronte alla definizione di foresta data nei documenti ONU, che è talmente larga da far rientrare anche le piantagioni di alberi per biocombustibili! I REDD++ si rivelano perciò essere un incentivo all’appropriazione e allo sfruttamento di terre vergini da parte di grandi aziende, calpestando i diritti di tutte quelle popolazioni indigene che da sempre hanno salvaguardato le foreste e hanno vissuto grazie ad esse. Ancora una volta la democrazia della terra viene ignorata nel nome del profitto.

Se questa può sembrarci una situazione lontana, dobbiamo pensare che anche in Italia ogni giorno viviamo e vediamo situazioni molto simili, che hanno dato vita negli ultimi anni ad importanti movimenti per la difesa del territorio come bene comune: dalla Val di Susa, per fermare una violenza volta solo alla costruzione di una grande opera inutile, a Vicenza col movimento No Dal Molin, che si oppone alla costruzione di una base militare statunitense, fino alle lotte a Napoli per una gestione dei rifiuti alternativa e sostenibile che non passi semplicemente dalla scelta della locazione di nuove discariche.

Tutte queste lotte reclamano il diritto ad un’amministrazione veramente democratica dei territori da parte di chi li vive, rifiutando qualsiasi strumentale appello ad un bene superiore, che bene non è per il pianeta.

 

Fuoco

La causa principale dell’emergenza climatica è sicuramente l’onnipresenza dei combustibili fossili nelle nostre economie e quindi, indirettamente, il fabbisogno energetico del sistema: riscaldamento, produzione, trasporti, tutto finora è stato mosso dalla relativa abbondanza di combustibile a buon mercato, senza mai domandarsi se dovesse esistere un limite.Ora vediamo però con chiarezza due verità: la prima è che quella che finora è stata la fonteenergetica per eccellenza ha liberato nell’atmosfera una quantità di anidride carbonica potenzialmente letale per il nostro clima; in secondo luogo, anche qualora volessimo continuare a fondare sui combustibili fossili la nostra produzione energetica, nel giro di qualche decennio arriveremmo a bruciarne l’ultima goccia, dal momento che le riserve non sono infinite, com’era abbastanza ragionevole aspettarsi.

Guardando al Cop17, le politiche che la governance internazionale sta portando avanti in campo energetico vanno da un lato verso lo sfruttamento delle rimanenti riserve fossili, incentivando l’efficienza energetica e lo sviluppo di tecnologie di cattura della CO2, dall’altro verso la graduale conversione delle fonti energetiche a favore di energie “verdi”. La definizione di quali forme energetiche siano incluse in questa categoria è però tutt’altro che oggettiva: a fianco delle risorse rinnovabili quali il sole ed il vento, rientrano infatti, e con importanza non marginale, nucleare e biocombustibili. Ma il nucleare – lo abbiamo già affermato con forza ai referendum di Giugno – presenta costi ambientali [7](dall’estrazione dell’uranio allo smaltimento delle scorie) e rischi potenziali non sostenibili e non può essere assolutamente considerato una fonte alternativa; lo stesso vale per i biocombustibili da monocoltura che, oltre ad avere in alcuni casi addirittura un bilancio energetico negativo [8], sono causa di pesanti deforestazioni nei paesi tropicali e stanno entrando pericolosamente in concorrenza con le colture alimentari.

L’obiezione che sempre viene posta a questa visione è che, se togliamo nucleare e biocombustibili, non saremo mai in grado di soddisfare l’attuale livello di consumo energetico, in un futuro senza combustibili fossili. Ma più che un’obiezione questa è invece una conferma: il pianeta ci sta dicendo chiaramente che il modello economico dominante non è sostenibile, non riuscendo a guardare oltre a produzione e consumo come ad indici di benessere e sviluppo, ed è invece necessaria un’inversione di rotta che vada a ripensarne le basi stesse.Non è un caso che le uniche energie veramente alternative siano quelle che ci arrivano dal sole e dal vento, che per loro stessa natura sono fonti a carattere diffuso sul territorio e non necessitano di pochi impianti localizzati. Dobbiamo allora rifiutare quell’autodefinito ecologismo che strizza l’occhio ai campi fotovoltaici, alle grandi centrali eoliche per lasciare nelle mani di pochi il bene energia e costruirvi sopra profitto, e puntare invece ad una produzione decentralizzata ed amministrata in maniera orizzontale e partecipata: non esiste sostenibilità senza democrazia e orizzontalità.

 

Conclusione

A Durban intanto proseguono le trattative, ma non è certo da quel luogo che dobbiamo aspettarci un netto cambio di direzione rispetto al passato: il dato di partenza è quello di Cancun e, anche se volessimo credere alla buona fede della governance globale che ha ideato quel trattato, dovremmo concludere che è indirizzato al massimo ad un piccolo ritocco del sistema esistente, in una situazione che è invece di estrema emergenza. È anche peggio di così: queste misure vanno decisamente nella direzione di incentivare nel Sud del mondo un processo di “sviluppo” che ricalchi quello occidentale, lasciando campo libero alle grandi imprese multinazionali per violentare il territorio e le risorse di quei paesi, andando a distruggere il tessuto economico locale e la socialità dei villaggi per far posto ad una economia inquinante ed insostenibile come la nostra. Ma come possiamo ancora parlare di sviluppo quando molteplici segnali, dall’emergenza ambientale ed energetica a quella democratica, ci dicono con chiarezza che questa non è un’evoluzione della civiltà ma piuttosto un passo verso il baratro?

Il futuro dei cosiddetti paesi emergenti e dell’intero pianeta dipende dalla sopravvivenza di quelle realtà produttive fondate sulla terra e su una gestione democratica delle risorse, che rappresentano il punto di partenza verso un modello veramente sostenibile; è a queste realtà che anche noi dobbiamo guardare, inflazionando esperienze di ricostruzione dal basso di un tessuto economico locale che mostrino come nei diversi campi della produzione, dal cibo (i GAS ne rappresentano un esempio di successo) all’energia fino ad arrivare a qualsiasi altro bene sia possibile un’alternativa ad emissioni zero. Cosa sarà in grado di produrre questa evoluzione, quando i grandi sistemi, a partire dalla Cop, stanno finanziando un modello di sviluppo completamente diverso?

C’è poi un ulteriore elemento che toglie ogni residuo dubbio su quale sia il fine reale delle politiche ambientali promosse fino ad ora: da mesi non sentiamo parlare di altro che della crisi finanziaria, dei mercati impazziti, della necessità delle privatizzazioni e delle politiche di austerity per pagare il debito. Ma la crisi altro non è che il segnale di un sistema al collasso che ha bisogno di nuovi beni da dare in mano al mercato, di nuovi meccanismi in grado di produrre flussi di denaro all’interno della finanza globale. Riconosciamo allora come le politiche per contrastare il cambiamento climatico abbiano in realtà a cuore tutt’altro, e cioè la soluzione della crisi economica: così come la BCE ci impone di dare al mercato la gestione di quei beni come l’acqua e i servizi locali, andando contro alla scelta diretta di 27 milioni di italiani, così nella Cop si decide di dare al mercato la gestione delle quote di atmosfera, sotto forma di crediti di CO2. Nuovi mercati, per uscire dalla crisi.D’altronde, nemmeno i promotori della linea politica della Cop ne nascondono il vero scopo:“solo una efficace strategia ambientale potrà farci tornare a una nuova fase di crescita più sicura, più equa, più pulita”. [9]

Nel lungo percorso di riconversione delle nostre economie dobbiamo innanzitutto rifiutare queste politiche di uscita dalle crisi e ripartire dalla costruzione di reti sociali in grado di sviluppare percorsi di partecipazione popolare, gli unici realmente capaci di rivendicare il diritto di scelta sul destino dei propri territori e di realizzare davvero l’alternativa. Soltanto questo tipo di partecipazione collettiva, che si concretizza attraverso le battaglie sull’acqua ed ogni altra battaglia a difesa del territorio, dell’ambiente, dell’università pubblica, dei diritti dei migranti, contro il nucleare, gli inceneritori e le grandi opere inutili e dannose, può permettere alle moltitudini di andare ad intaccare quei rapporti di forza, imposti dal mercato globale, che determinano la sempre più frequente espropriazione dei beni comuni da parte del privato.

 All’ennesimo colpo di coda di un sistema al collasso che vuole perpetrare e riprodurre sé stesso svendendo ogni cosa al mercato dobbiamo rispondere con una gestione orizzontale e partecipata da tutti di ciò che, in quanto comune, a tutti appartiene.

 
Ascia & eigenLab                               

Testi Citati

[1] Nicholas Stern, “Un piano per salvare il pianeta”

[2] Vandana Shiva, “Ritorno alla terra”

[3] P.J. Crutzen, “Albedo Enhancement by Stratospheric Sulphur Injections: A contribution to resolve a Policy Dilemma?”

[4] Michael Beher, “How earth engineering can save the planet”

[5] Buddhadeb Bhattacharya, discorso a Kolkata, 3 Gennaio 2007

[6] Gemenez E. Holt, “Measuring Farmers”agroecological resistance after Hurricane Mitch in Nicaragua: a case study in participatory, sustainable land management impact monitoring.” Agriculture, Ecosystems & Environment, 2002

[7] http://www.tijuanaproject.it/speciali/46-speciali/203-con-latomo-non-si-cambia

[8] David Pimentel, “False solution”, conferenza su The Triple Crises, 2007

[9] Nicholas Stern, “Un piano per salvare il pianeta”

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