Sull’orlo dell’esaurimento

Spunti per una riflessione verso la notte bianca del 7 Dicembre al Polo Fibonacci

Per secoli l’uomo ha sfruttato e piegato la natura a suo piacimento, traendone vantaggi immediati. Il successivo sviluppo industriale e tecnologico ha poi contribuito a modificare non solo l’ambiente circostante (deteriorandolo talvolta in maniera irreversibile) ma anche la nostra visione e il nostro modo di rapportarci ad esso. Il nostro modello di sviluppo attuale ha portato da un lato ad uno sfruttamento incontrollato delle risorse naturali e dall’altro ha fatto credere per decenni che queste risorse fossero inesauribili.

Che cosa ci ha portato ad un tale sfruttamento delle risorse? È un consumo necessario o è dovuto a questo particolare modello economico?Nel rispondere a queste due domande occorre analizzare la produzione di ciò che costituisce la base dei nostri consumi quindi la produzione di cibo e l’utilizzo delle materie prime.

In agricoltura, i metodi e gli strumenti attualmente utilizzati rispecchiano un’impostazione di fondo che vede l’uomo in guerra con la natura, in cui il destino di quest’ultima è quello di essere saccheggiata, sfruttata e depredata. Alla fine della seconda guerra mondiale ci fu la necessità di mantenere il potenziale produttivo dell’industria bellica, convertendo i carri armati in trattori e le armi chimiche in fertilizzanti e pesticidi. In questo modo si è voluto subordinare il settore agricolo, prima autosufficiente, a quello dell’industria, per aprire nuovi spazi di investimento. Questo processo ha di fatto slegato l’agricoltura da quella che è la sua essenza rendendola totalmente dipendente dall’intervento umano, meccanico e chimico in ogni sua fase e cambiando profondamente la visione della terra, ormai vista come una risorsa da normare a seconda delle esigenze dei mercati. Oggi gran parte della produzione agricola è destinata al sostentamento degli allevamenti intensivi; questa richiesta ha incentivato così l’utilizzo di nuove tecnologie, tra cui la modificazione genetica. Questa tecnologia è stata fortemente finanziata dall’industria poiché le colture GM permettono un utilizzo molto maggiore di pesticidi e fertilizzanti: tutto ciò contribuisce all’eliminazione della biodiversità e alla diminuzione della fecondità della terra.

Come è avvenuto per l’agricoltura, così anche in allevamento si è diffuso nell’ultimo secolo un modello intensivo che mira a massimizzare il profitto, con qualunque mezzo. Questa concezione ha conseguenze pesanti: i tempi necessari per la crescita degli animali vengono ridotti grazie alla somministrazione di ormoni, i mangimi utilizzati non rispecchiano affatto l’alimentazione naturale (ad esempio le farine animali hanno causato il morbo della mucca pazza) e la densità di capi negli allevamenti è elevata. Si è arrivati al punto di portare gli animali a vivere a contatto con i propri escrementi, favorendo l’insorgenza di malattie curate con dosi massicce di antibiotici, con l’effetto collaterale di creare le condizioni per lo sviluppo di nuovi ceppi di batteri farmaco-resistenti.

L’impatto ambientale che deriva da questo tipo di zootecnia è enorme sia perché il mais e la soia utilizzati per il foraggio provengono da monocolture industriali (e sono spesso ogm), quindi pesantemente irrorati di pesticidi e fertilizzanti, sia perché le altre fasi della lavorazione della carne (mangimi, mattatoi e grande distribuzione) necessitano di una grande numero di trasporti.

Agricoltura e allevamento sono così diventati distanti tra loro e dipendenti dall’industria, nonostante nascano al di fuori di questa logica.

Come è avvenuto per la coltivazione, così l’allevamento è stato impostato secondo un modello intensivo che mira a massimizzare il profitto con qualunque mezzo, anche al prezzo di calpestare ogni dignità animale e di correre rischi enormi. I tempi necessari per la crescita degli animali vengono ridotti grazie alla somministrazione di ormoni, le tecniche di selezione hanno prodotto esemplari inesistenti in natura, i mangimi utilizzati non rispecchiano affatto l’alimentazione naturale (ad esempio le farine animali che hanno causato il morbo della mucca pazza) e la densità di capi negli allevamenti è disumana, gli animali vivono a contatto con i propri escrementi. Tutti questi fattori hanno selezionato ceppi resistenti di virus ed altre patologie; gli antibiotici somministrati in via preventiva non fanno che aumentare il fenomeno dell’antibiotico-resistenza.

L’impatto ambientale che deriva da questo tipo di zootecnia è enorme, sia perché i foraggi (principalmente mais e soia GM) provengono da monocolture intensive che fanno largo ricorso a pesticidi e fertilizzanti, sia perché il “doppio passaggio” implica un consumo di energia, acqua e suolo di ordini di grandezza superiore rispetto alla soluzione dell’approvvigionamento alimentare da vegetali. L’allevamento intensivo, responsabile del 30% delle emissioni globali di gas serra, è divenuto il più saldo anello di congiunzione tra agricoltura e industria, tramite i settori della lavorazione (come i mattatoi, letteralmente “catene di smontaggio” per animali), dei mangimi, della distribuzione; questa “chiusura del cerchio” soggiace alla logica del profitto e dello sfruttamento.

Crescita economica e crescita della produzione di merci sono da sempre il paradigma utilizzato nell’economia capitalista. Quest’ipotesi di crescita illimitata si basava sulla certezza di poter contare su quantità pressoché inesauribili di risorse naturali ed è sempre stata accompagnata dalla retorica dello sviluppo come mezzo che permetterà a tutti l’accesso alle stesse risorse. Il ruolo dei paesi industrializzati è stato quello di accaparrarsi, tramite le grandi compagnie, la quasi totalità delle risorse presenti sulla Terra.

Questa prospettiva ideologica, oltre a favorire, e di fatto giustificare, le profonde diseguaglianze tra popolazioni e tra classi sociali («…ci sono risorse disponibili per tutti…»), ha fatto in modo che il patrimonio delle risorse naturali fosse depauperato fino all’inverosimile.

Ma mentre lo spazio, l’ambiente e le risorse terrestri sono quantità finite e soggette ad esaurimento, il loro consumo cresce più rapidamente dell’aumento della popolazione e c’è una parte del pianeta che sta consumando più di quanto potrebbe. I combustibili fossili stanno scarseggiando e i primi a correre al riparo sono proprio i grandi estrattori di petrolio che sono stanno finanziando le ricerche su altre fonti energetiche, riproponendo le stesse dinamiche nella cosiddetta “green” economy. Le auto elettriche ad esempio ripropongono lo stesso modello imposto fin’ora; se da un lato vengono auspicate dal mercato a causa della scarsità di petrolio e dalla necessità di ridurre i gas inquinanti, dall’altro non mettono affatto in discussione l’attuale organizzazione del trasporto o la provenienza dell’elettricità necessaria per ricaricarle che a tutt’oggi proviene, per la maggior parte, da fonti non rinnovabili ed altamente inquinanti.

L’esigenza di nuove fonti e materie prime è importante per tutta l’umanità ma i fini sono differenti, da un lato c’è chi vuole aprire nuovi campi d’investimento (come venne fatto con l’agricoltura dopo la seconda guerra mondiale) mentre dall’altro i movimenti impegnati nella difesa dell’ambiente e del territorio cercano di salvaguardare il pianeta Terra. La domanda che dobbiamo porci è in che direzione vanno le scelte che verranno prese e su quali basi politiche poggiano. Il nodo chiave è la questione dello sfruttamento del territorio e dell’ambiente, che non può essere ridotto ad un mero problema di mancanza (o sviluppo) di una nuova tecnologia, essa non può bastare a risolvere questi problemi in quanto i piani ambientali, economici, sociali e tecnologici sono tra loro interconnessi.

In questi giorni si svolgerà la COP18 (Conference of the Parties) in Qatar il cui scopo, a parole, è riuscire a produrre una nuova legislazione internazionale in grado di contrastare il cambiamento climatico. L’attuale modello di sviluppo però non verrà affatto messo in discussione, non ci sorprendiamo! Questi organi decisionali non hanno la legittimità di decidere del futuro nostro e del pianeta poiché si fanno portavoce dei grandi interessi economici; così come la troika ci impone sacrifici e austerità per salvare le banche, nella Cop si decide di dare al mercato nuove forme e spazi di investimento che inglobino la biosfera tutta (ad esempio privatizzando l’atmosfera tramite i crediti di carbonio che si traducono nel diritto ad inquinare).

Esistono invece realtà, nate dal basso, che hanno alla base una diversa gestione del territorio e rifiutano questo modello di sviluppo che distrugge la Terra e le vite di molti, nel nome del profitto di pochi. Alcune di queste realtà, come i GAS (gruppi di acquisto solidali), vogliono ricostruire un’economia locale e sostenibile contro il sistema attuale di produzione dei beni, partendo dal rapporto diretto tra produttore e consumatore; altre mettono in campo pratiche di resistenza contro lo sfruttamento del proprio territorio minacciato dalla nuova grande opera inutile, come un treno ad alta velocità o una nuova autostrada, o dall’estrazione massiccia di risorse.

Per questo proponiamo a tutte le realtà interessate di incontrarsi e intrecciarsi il 7 Dicembre, al Polo Fibonacci (ex Marzotto) per aprire un dibattito, a livello locale, su queste tematiche. Speriamo che questa sia una delle tappe da cui partire per la costruzione di una rete capace di offrire un’alternativa reale a questo sistema economico.

 

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