Come realtà di movimento testimone dello svolgersi degli eventi di questi ultimi anni riteniamo ormai imprescindibile in un’analisi politica dover considerare anche il ruolo giocato da Internet e dai nuovi media nella costituzione dei rapporti sociali.
Se per McLuhan il mezzo tecnologico ed in particolare il mezzo di comunicazione era un’estensione del corpo fisico, Internet offre la possibilità di riprodurre interamente la nostra identità e quindi le nostre relazioni all’ interno di uno pseudo-luogo virtuale, somigliante e interferente con quello reale e all’interno del quale si riproducono gran parte delle dinamiche a cui siamo abituati. In quanto estensione del nostro corpo fisico, anche quello virtuale sarà quindi potenziale strumento di emancipazione e di liberazione, così come sarà soggetto alle stesse pratiche di controllo a cui siamo soggetti nella quotidianità.
I processi produttivi, i tentativi di repressione e le possibilità di lotta si riassettano davanti ad un nuovo scenario, adattandosi come possibile per proseguire, anche al di là dello schermo, le pratiche a loro affini.
Nell’era di un capitalismo avanzato e al passo con le nuove tecnologie, Internet non è dunque da considerarsi strumento neutrale o addirittura mezzo definitivo per giungere pacificamente ad una liberazione, ma spazio di contrasto e di conflitto sul quale dover fronteggiare nuove forme di sfruttamento tanto ingannevoli quanto insidiose.
Proprio in questi giorni un’ondata repressiva ai danni degli attivisti di Anonymous ci ha ricordato quanto le istituzioni del potere siano attente nella vigilanza delle forme di dissenso virtuale, attuando un’operazione ironicamente battezzata Tangodown arrivando addirittura per la prima volta al riconoscimento di uno status giuridico di “associazione a delinquere telematica”. L’attenzione dei governi alle dinamiche di rete si era già ampiamente dimostrata varie volte negli ultimi anni, talvolta con particolare insistenza come nel caso delle varie proposte di legge, dal SOPA al PIPA, dal CISPA all’ACTA, nel tentativo di garantire ai titolari di copyright potere sufficiente per soffocare le potenzialità della Rete in quanto mezzo di condivisione di saperi. Mentre queste grandi minacce non sono mai andate in porto nonostante i nomi sempre più allettanti, la censura sui media si fa sentire in molti paesi: dall’Italia, in cui sono stati resi inacessibili i più famosi siti di file-sharing e talvolta si minaccia la chiusura di qualche sito No-Tav, alla Cina, dove il governo applica un continuo monitoraggio dei dati grazie al sistema Great Firewall e ad una struttura di rete fortemente verticale, che ne fanno il paese più censurato al mondo. Anche la Turchia più vicina all’Europa sia geograficamente che per le istanze sociali, risalita agli albori della cronaca in questi giorni per le rivolte che infiammano il paese, si fregia di uno dei sistemi di controllo e censura telematica tra i più avanzati al mondo, realizzato grazie alla fornitura di strumenti informatici da parte di aziende dei liberissimi Stati Uniti.
Il dinamico affermarsi dei rapporti di dominio e di sfruttamento sullo spazio della rete dà luogo ad una nuova accumulazione, “originaria” per quanto riguarda il contesto di capitalismo cognitivo, la quale permette espropriazione e conseguente messa a valore delle informazioni grazie alla produzione libera e gratuita dei nuovi clienti-produttori che sono gli utenti del Web 2.0.
In questa enclosure digitale, la cooperazione e lo scambio libero che caratterizzavano la rete degli anni novanta sono stati catturati da un nuovo capitalismo dell’informazione, che tramite la proprietà intellettuale sottrae la conoscenza dal dominio pubblico e trasforma in merce affetta da carenza ciò che è invece di per sé riproducibile a costo zero:l’informazione.
I nuovi sfruttati di questo capitalismo appartengono ad una vastissima varietà di categorie, tanto che è arduo delineare il profilo che identifica lo sfruttato del lavoro 2.0. Sulla rete la definizione stessa di lavoro è in crisi, dal momento in cui a produrre valore è anche il nostro momento di svago come la partecipazione ad un social network, e così è difficile portare una critica a questo nuovo “modo di produzione” in cui il consumatore è anche direttamente produttore.
A queste ambiguità si aggiunge il fatto che la particolare modalità di “lavoro” del produttore-consumatore del web 2.0, se da un lato si basa per sua stessa natura su forme di cooperazione, dall’altro, nella sua forma materiale, rischia spesso di ridursi a mero lavoro individuale davanti ad uno schermo del PC. Questa “contraddizione” rende più complesso e difficile l’incontro e il riconoscimento comune delle soggettività di questa “classe” e delle sue peculiarità.
Oltre alle forme di lavoro la Rete ha modificato aspetti più intimi della vita, dalla concezione dello spazio e del tempo accorciando tempi e distanze, alle relazioni personali, che ormai passano costantemente anche attraverso uno schermo. La Rete ha portato il vecchio feticismo della merce ad evolversi in un feticismo della rete, dove il feticcio non è più una merce concreta ma un’ astrazione, un feticismo della connessione continua e indispensabile secondo il quale non esisti se non sei on-line.
Il mondo affascinante delle tecnologie e del virtuale tende spesso ad ingannarci, nascondendoci i veri rapporti di sfruttamento che caratterizzano i processi produttivi. Google e Facebook sembrano diventate entità astratte, anziché vere e proprie aziende al pari di Nike e Monsanto. Contrariamente a quanto “l’illusione del clouding” ci induce a credere, l’ archiviazione dei dati non avviene sulle nuvole, e i servizi offerti sul web sono possibili grazie ad enormi infrastrutture reali e costose in termini energetici che con la loro invasività stanno modificando l’assetto geografico e ambientale di Silicon Valley.
Questi sono solo alcuni dei molti esempi che un’accurata analisi può fornire del forte radicamento che la Rete e i media hanno assunto nei rapporti reali, un analisi che i movimenti sono più che mai chiamati ad affrontare. Da questo punto di vista ci sembra che il rapporto con la Rete sia diventato ormai centrale, non più soltanto per le comunità di attivisti della Rete stessa, ma anche per i movimenti sociali che ne hanno compreso le potenzialità. Tuttavia si riscontra, tra queste due differenti modalità, una certa distanza e incomunicabilità che ci sembra essenziale colmare, trovando un terreno e dei ritmi comuni.
Da un lato, infatti, le comunità di hacking hanno elaborato da anni un approccio ai nuovi media e riescono tuttora a portare avanti percorsi reali, che tuttavia risentono ancora di quell’impronta avanguardista che caratterizzava l’hacker di fine millennio. Le comunità di hacking, infatti, sembrano ancora legate a quell’immagine del singolo impegnato ad apprendere conoscenze individualmente per sviluppare nuove strategie di sovversione digitale. Tutto ciò, chiaramente, a discapito sia di ogni possibile connessione reale di queste comunità con i movimenti sociali, sia di una diffusione massificata di questi processi. In altri casi quel processo individualizzante che caratterizza il nuovo lavoratore tende a colpire anche il nuovo attivista, intrappolato in un mondo virtuale che gli dà l’illusione della mancata necessità di pratiche reali e collettive, trasformando talvolta la Rete nell’unico luogo di autentica partecipazione, sul quale dover portare il proprio contributo e dove “ognuno vale uno”.
In questo scenario il fenomeno di Anonymous è da considerarsi un’ importante novità, per essere riuscito per la prima volta a riunire sotto un “nome” comune e delle linee generali un movimento mondiale di azione sulla Rete. Anonymous è forse l’esperienza di attivismo in Rete che meglio è riuscita a intercettare altre lotte e a usare la Rete per fare rete, confondendo la frontiera tra spazio reale e spazio virtuale. Tuttavia la carenza di questa struttura, che affligge ogni progetto nato e cresciuto soltanto sulla rete, è una corrispettiva azione reale che, oltre a permettere la costituzione di un soggetto più definito, consentirebbe una coesione utile soprattutto nei momenti di repressione.
I movimenti sociali che in questi anni hanno attraversato e invaso le piazze italiane ed europee, dal canto loro, hanno compreso a pieno l’importanza e le potenzialità della Rete. L’uso di Twitter come mezzo di comunicazione collettiva, oltre che come mezzo per raggiungere milioni di persone e condividere le informazioni è ormai un elemento scontato in ogni processo di lotta. Si tratta però di un rapporto tra attivismo e Rete che non esce dalla dinamica dell’”uso dello strumento” a fini comunicativi, mentre molto meno sembra rilevante, o efficace, la possibilità di utilizzo della Rete come strumento di organizzazione, oltre che come spazio stesso di un conflitto che si muova a pari passo e con un ritmo comune rispetto al conflitto delle piazze.
Nel Manifesto Telecomunista Dmitry Kleiner ricorda come alla fine degli anni novanta le aziende di telecomunicazioni abbiano provveduto a convertire le connessioni di casa da simmetriche (stessa capacità di download e upload) ad asimmetriche, favorendo solo la capacità di download, per trasformare l’utente internet esclusivamente in fruitore di servizi, apportando così uno di quei tanti accorgimenti tecnici che hanno consentito lo svilupparsi di grandi monopoli di servizi virtuali come Google o Facebook. Esempi come questo sono utili per comprendere come i rapporti di forza presenti sulla Rete siano fortemente determinati dall’architettura fisica dell’infrastruttura, e che è quindi necessario apprendere anche la tecnica per agire politicamente sulla Rete.
È da questo presupposto che sono d’altronde nati progetti come eigenNet, una rete wireless mesh (orizzontale, senza nodi privilegiati) cittadina a Pisa e parte integrante di una rete autogestita e decentralizzata internazionale, o come i vari servizi offerti dal collettivoAutistici/Inventati, da anni attivi sul fronte del mediattivismo.
Le lotte per la Rete sono un ricongiungimento tra teoria e prassi, ma sono anche le lotte dentro e fuori la rete, che non si limitano a produrre azioni sul virtuale ma sanno riconoscere i rapporti che la Rete plasma nel reale, unendo pratiche di piazza ad un uso virtuoso dei social network, accostando progetti di file-sharing con iniziative per la liberazione della cultura e dell’istruzione dalle mani del Capitale. Se il corpo virtuale è davvero un’estensione di quello reale, allora anche le nostre azioni di lotta dovranno adattarsi a questo nuovo corpo, agendo in risonanza con le azioni reali, sapendo distinguere le pratiche di liberazione da quelle di assoggettamento che la Rete può offrire, imparando a districarsi nelle complesse ambiguità che contraddistinguono ogni mezzo tecnologico, arrischiandoci in una partecipazione critica che sappia massimizzare le potenzialità costituenti della Rete.
Dentro e contro, ancora una volta.
Tratto da http://exploit.noblogs.org/