Orto

Occupiamoci di ciò che mangiamo: verso una produzione critica del cibo

L’approvvigionamento di cibo è un aspetto fondamentale della vita, ma è diventato ormai talmente automatico per gran parte di noi, che spesso non ci poniamo domande a riguardo: facciamo la spesa al supermercato, magari a quello più grande che ha molta scelta e prezzi più bassi, prendiamo caffè e bibite ai distributori automatici, mangiamo un kebab al volo nella pausa pranzo. Non ci chiediamo neanche da dove e come il cibo giunga fino a noi, tanti sono i luoghi e i modi in cui possiamo reperirlo.

Emblematico, a questo proposito, è il lungo viaggio del caffè dalle piantagioni del Sud globale fino alle nostre tazze: in Uganda un chilogrammo di caffè rende 14 centesimi di dollaro al contadino che lo coltiva; se pensiamo che il prezzo che paghiamo per il prodotto finale è almeno 100 volte superiore, per quanto possano essere alte le spese di trasporto e lavorazione, capiamo che c’è qualcosa che non va. La chiave di questo rebus sta nel fatto che non sono né i consumatori, né tanto meno i produttori a trarre il maggior profitto da un mercato alimentare a estensione globale, bensì gli intermediari: le multinazionali.Al giorno d’oggi sono moltissimi i passaggi che gli alimenti subiscono prima di raggiungerci, ma per quanto complessa sia questa catena, all’origine c’è la terra e la terra qualcuno la lavora.

Gli enormi capitali necessari per essere competitivi in un tale mercato – fatto di esportazioni da una parte all’altra del globo – fanno sì che oggi pochissime aziende sovranazionali ne abbiano il controllo, con conseguenze evidenti. Operando una concorrenza tra produttori che non potranno mai confrontarsi a causa della grandezza e complessità del sistema, esse sono in grado di imporre al singolo contadino un prezzo d’acquisto stracciato, mantenendo allo stesso tempo un ampio margine di guadagno sul prodotto finito.

Se da una parte la crescita dei profitti delle multinazionali non trova ormai ostacoli, dall’altra il contadino del Sud globale non ha scelta: i guadagni non gli permettono la sussistenza, per questo è costretto a indebitarsi e, nella maggior parte dei casi, a perdere la terra che apparteneva alla sua famiglia da generazioni. Chi può decide di andarsene, migrante, gli altri restano e per poco o nulla lavorano la terra che un tempo era loro. Sono i nuovi schiavi del sistema alimentare.

È evidente che un mercato quanto più liberalizzato e privo di barriere doganali è nell’interesse di chi ne ha il controllo. Non ci sembra affatto strano trovare nei nostri supermercati qualsiasi tipo di alimento in ogni periodo dell’anno, proveniente da qualunque parte del pianeta: frutti tropicali, verdure fuori stagione made in Sudafrica, prodotti che troveremmo tranquillamente a pochi chilometri da casa, ma che costano meno se giungono, ad esempio, dalla Spagna. Questa situazione, assolutamente normale, è un disastro per un coltivatore locale: milioni di piccoli contadini nel mondo sono andati in rovina, incapaci di rispondere alla concorrenza del cibo estero a bassissimo prezzo.

Testimonianza di ciò è quanto accaduto nel 1994, quando Carlos Salinas, Bill Clinton, e Brian Mulroney, presidenti di Messico, USA e Canada, firmarono il North American Free Trade Agreement (NAFTA), eliminando qualsiasi barriera doganale e creando di fatto un mercato unico nordamericano di 360 milioni di consumatori.

Un esempio concreto sulle conseguenze della liberalizzazione riguarda la coltivazione e la vendita di mais: quello statunitense, grazie ai sussidi statali, costava molto meno di quello prodotto in Messico, coltivato con scarsa meccanizzazione e rese più basse. Invadendo il mercato messicano insieme a fagioli e granturco, il mais a stelle e strisce ha messo in ginocchio l’agricoltura autoctona, compresa quella di sussistenza. Nessuno continuerebbe a coltivare un prodotto quando lo stesso è immediatamente disponibile sul mercato alla metà del prezzo.

Le famiglie sono state costrette a ipotecare i propri terreni per tirare avanti o a lasciare il paese, diretti al nord. La risposta degli USA all’immigrazione da essi stessi causata è stata di chiusura completa: nel 2006 il governo statunitense ha addirittura proposto di costruire una barriera di 1000 km lungo il confine per arrestare il flusso di migranti.

C’è da chiedersi come mai il presidente messicano abbia firmato quell’accordo, se si è rivelato così devastante per l’economia locale. In queste decisioni nessun paese, nemmeno quello statunitense, è realmente indipendente:le grandi aziende multinazionali non solo sono in grado di influenzare i singoli governi mediante il proprio peso nell’economia nazionale o tramite il ben collaudato mezzo della corruzione, ma dettano di fatto le mosse politiche degli organismi finanziari internazionali (World Trade Organization, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale). È qui che si consuma il dramma dei paesi del Sud globale, oppressi da un debito consistente: per ottenere i finanziamenti di cui hanno bisogno sono vincolati a seguire le letali direttive di Banca Mondiale e WTO in materia di politica economica, con particolare interesse all’agricoltura.

È stata questa la strategia che ha sotteso le cosiddette Rivoluzioni Verdi. Sotto il vessillo della lotta alla fame nel mondo è stata fatta una prima grande crociata per modificare le pratiche agricole tradizionali nei paesi in difficoltà con l’introduzione di nuove tecnologie e un massiccio uso di pesticidi e diserbanti.

Se le grandi aziende del settore agrochimico, come la Monsanto e la Bayer, hanno fatto fortuna grazie a queste politiche, i paesi “beneficiari” sono presto ritornati alla fame: aumentare la produttività agricola non risolve un problema che ha radici molto più profonde e può avere solo una soluzione politica, non tecnica. La fame non è legata a una mancanza reale di cibo, ma al fatto che i più poveri non possono permetterselo perché troppo costoso!

E non è un caso che ora queste e altre aziende del settore stiano diventando leaders nella produzione di OGM, fiutando una seconda Rivoluzione Verde.

Cambiare le cose è difficile, ma non impossibile: è il caso di movimenti sociali come quello degli abitanti del Chiapas, in Messico, che dagli anni ’90, uniti sotto un fronte comune e con l’aiuto dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, rivendicano i loro diritti con la forza, strappando ai latifondisti la terra nella quale, in seguito al NAFTA, si erano ridotti a lavorare come schiavi. Forse meno noto è il caso dei Sem Terra in Brasile, movimento che ha portato in trent’anni di lotta un milione di persone a riappropriarsi della terra dei latifondi, dominati dalle monocolture di soia. Entrambe queste realtà di minoranze in rivolta, che coinvolgono persino gli studenti, esplorano atteggiamenti e pratiche indigene cercando ispirazione nella ristrutturazione del rapporto umano con la natura, costruendo una vera e propria alternativa sociale, accanto a quella agricola: il potere non è concentrato nelle mani di nessuno, le scelte e il lavoro vengono compiuti in comunità.

Ma quale può essere invece una risposta efficace per noi che stiamo dalla parte dei consumatori?

Gas (Gruppo di Acquisto Solidale) costituiscono un’alternativa alle grandi catene di distribuzione, espressione della globalizzazione del sistema alimentare. Nascono dall‘esigenza collettiva di cercare una strada diversa rispetto a quella che i media e la società del consumo ci inducono a percorrere; una strada che ci porti a una riflessione più attenta sulle tematiche riguardanti ogni singolo prodotto. Prime fra tutte il rispetto dell’uomo e dell’ambiente, la salute di chi lo ha prodotto e di chi lo consuma, la sostenibilità e la solidarietà con il piccolo produttore travolto dai mercati extra-large. Entrando in contatto diretto con chi coltiva ciò che arriva sulla nostra tavola, possiamo ricreare quel tessuto sociale che nel mondo del supermercato è andato perduto e permetterebbe a un’agricoltura locale e biologica di superare la concorrenza dei prodotti industriali. Entrare a far parte in questo modo di un processo globale che dal semplice consumo critico, necessario ma non più sufficiente, raggiunga finalmente una produzione critica, più vicina alle esigenze reali dell’uomo e compatibile con ciò che può offrire l’ambiente.

È necessario rivalutare l’importanza del cibo e del luogo da cui proviene. In quanto elemento indispensabile alla vita, dobbiamo porre la terra al centro della nostra attenzione, un bene comune di cui tutti siamo responsabili e che dobbiamo difendere dal profitto del sistema lobbistico. Rivalutare il ruolo della terra significa riavvicinare anche fisicamente produzione e consumo, in un intreccio a maglie sempre più strette sul territorio. Questa tendenza è in netta crescita anche nelle grandi città, come a Parigi, dove è sempre maggiore il numero di orti urbani, nei cortili delle case o addirittura sui tetti. Una riflessione più attenta sul territorio ci conduce a una inevitabile riscoperta di tutti quei potenziali luoghi di produzione critica che non vengono sfruttati ma abbandonati a sé stessi.

È per questo che, in un prato della facoltà di Scienze a Pisa, abbiamo dato vita a eigenOrto, un orto completamente biologico, coltivato con prodotti tipici locali. Rifiutiamo il modello di produzione intensiva che sfrutta il territorio e condanna milioni di persone a una vita di stenti, senza lasciare alle altre una effettiva libertà di scelta. Lottiamo per una reale democrazia della terra, ritornando in prima persona a una gestione localizzata e senza più intermediari delle risorse.

eigenOrto è un progetto di denuncia, una provocazione che vuole far pensare, ma allo stesso tempo è un vero orto urbano, terra che da incolta diventa produttiva, anomalia pronta a estendersi a macchia d’olio, per costruire l’alternativa.

eigenOrto

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